Padri che uccidono i figli nel sonno. Mariti che sparano alle mogli. Compagni che riducono in fin di vita le proprie partner riempiendole di botte. Genitori che
vengono eliminati da chi hanno messo al mondo. La cronaca degli ultimi mesi continua con atti e delitti commessi tra le mura domestiche. In Sicilia un uomo ha accoltellato le figlie di 12 e 14 anni
mentre dormivano e poi ha tentato di togliersi la vita. Qualche giorno prima un padre ha ucciso la sua bambina di 18 mesi con 5 coltellate mentre era nella culla. Solo il mese prima un uomo ha
sparato in testa alla moglie; la coppia aveva due figli e la donna aveva deciso di lasciare il marito.
Parlare di raptus di follia in questi casi, è errato. L’omicidio in famiglia non è mai frutto di un colpo di testa. In genere è il tragico culmine di situazioni complicate che, ad un certo punto,
arrivano ad un tragico epilogo. Non si tratta di un qualcosa che accade all’improvviso, dunque, ma di un’esasperazione di conflitti irrisolti.
Negli anni ’90 circa duemila omicidi, sebbene negli anni seguenti il numero degli omicidi totali sia inferiore rispetto al passato, i numeri sono rimasti invariati per gli omicidi commessi in
famiglia. Solo nel 2012 sono 159, ed hanno provocato 175 vittime (147 con una sola vittima, 10 duplici omicidi, 2 con 4 decessi). Il dato in sé è piuttosto allarmante, in quanto significa che la
famiglia non è più quel luogo sicuro dove ci si può rifugiare dal mondo esterno.
Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini che uccidono le loro compagne (mogli, conviventi, partner o fidanzate). Assassinii di genere per i quali è stato coniato il neologismo
“femminicidio”.
In Italia, il 90% degli omicidi commessi nell’ambito familiare è commessa da uomini, in particolare, quando viene sterminata tutta la famiglia si tratta sempre di un uomo, quasi la metà degli omicidi
commessi in famiglia sono uxoricidi. Il movente, nella maggior parte dei casi, è la gelosia, o meglio, la non accettazione della fine di un rapporto. Secondo l’ultimo rapporto Eures Ansa del 2012,
nel 17,1% degli omicidi in famiglia è stato il genitore ad uccidere un figlio. In qualche caso si tratta di padri che non riescono più a sopportare il figlio violento, perché affetto da patologie
psichiatriche o perché sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Un caso del tutto diverso è il padre che uccide i figli per fare un torto alla madre che lo ha lasciato.
Le donne che uccidono se la prendono nel 60% dei casi con il compagno e nel 20% con i figli. Quando la madre elimina la propria prole, la criminologia parla di Sindrome di Medea. La donna, più dell’uomo, quando arriva ad uccidere i figli ha la convinzione che questi siano una sorta di suo prolungamento. La giustificazione che si danno si può sintetizzare in “io ti ho fatto, io ti distruggo”. Molto spesso la madre che decide di suicidarsi, porta con sé anche la prole, soprattutto se si tratta di bambini piccoli o minorenni. Siamo di fronte a situazione di estrema e profonda depressione dove se nulla ha più senso e se il mondo è un “posto brutto”, sopprimere i figli prima di suicidarsi sembra, nella mente di una persona che vive quel disagio in solitudine, un ragionamento più che lineare. Ma esistono anche madri che sono affette dalla Sindrome di Munchausen per procura.
Si tratta di donne che vogliono stare (patologicamente) al centro dell’attenzione e, per farlo, si servono dei figli cui somministrano farmaci o veleni. I bambini
stanno male e loro, a quel punto, hanno l’occasione di frequentare ospedali e farsi notare nel loro dolore. Non sempre arrivano ad uccidere i figli, ma può succedere come conseguenza estrema se non
fermate in tempo.
Altro campo sono i figli che uccidono i genitori. In molti casi si tratta di figli che uccidono il padre padrone, o che ritengono tale. A questo punto, per liberarsi dal giogo, non resta che
l’omicidio, soprattutto quando il genitore è un violento, un prevaricatore o addirittura ha comportamenti incestuosi. Ma ci sono anche figli affetti da disturbi psichiatrici o che abusano di sostanze
stupefacenti e, per una serie di motivi, arrivano ad uccidere il genitore solo per denaro o per entrare in possesso dell’eredità.
Ma non solo in famiglia esistono situazioni critiche e contrasti a media ed alta conflittualità. Prendiamo ad esempio la scuola. Le prime pagine dei quotidiani, troppo spesso, sono piene di episodi
di cronaca di bullismo. Il termine bullismo descrive, in generale, un comportamento invadente, negativo e perpetuato nel tempo. Quella lunga catena di incidenti, anche piccoli e di per sé poco
significativi, comprende la sottovalutazione e le critica triviale dell’individuo, o degli individui che ha a bersaglio. Caratteristica dei bersagli non è tanto il fatto di essere sottoposti o
più giovani, quanto quello di essere, in qualche modo, più deboli. Questo può accadere tra studente e studente, tra studente e professore e, come spesso accade, tra genitori e professori.
In ultimo , ma non ultimo, il cyberbullismo, termine coniato dall’insegnante canadese Bill Belsey per identificare il bullismo on-line. Rispetto al bullismo tradizionale nella vita reale, l’uso dei
mezzi elettronici conferisce al cyber bullismo alcune caratteristiche proprie come: anonimato del molestatore, difficile reperibilità, indebolimento delle remore etiche, assenza di limiti
spazio-temporali.
Come nel bullismo tradizionale, però, il prevaricatore vuole prendere di mira chi è ritenuto “diverso”, solitamente per aspetto estetico, timidezza, orientamento sessuale o politico, abbigliamento e
così via. Gli esiti di tale molestie sono, com’è possibile immaginare di fronte a tale stigma, l’erosione di qualsivoglia volontà di aggregazione ed il conseguente isolamento, implicando esso a sua
volta danni psicologici non indifferenti, come la depressione o, nei casi peggiori, ideazioni e intenzioni suicidarie.